E’ possibile, oggi, immaginare un ruolo per la cultura all’interno della società? Se si, quale? In una società dominata dallo scambio globale di ogni tipo di informazione, nella quale le differenze di spazio e di tempo si neutralizzano, abbiamo ancora bisogno della cultura?
Storicamente “l’intellettuale” – inteso nella accezione più ampia del termine, come vuole Gramsci – ha sempre avuto un posto all’interno della società. Anche il più maledetto dei poeti francesi, il più sordo dei musicisti, il più allucinato dei pittori, hanno sempre avuto una relazione (magari molto remota, riconoscibile soltanto a posteriori) con il resto della totalità sociale. Ebbene, nella società contemporanea, cosiddetta postmoderna e tardo-industriale, quella che si caratterizza per la fluidità dei saperi, per la digitalizzazione delle informazioni, per la pervasiva presenza della tecnologia in ogni ambito della vita, sembra che la cultura sia diventata progressivamente autosufficiente e autoreferenziale. Vale a dire: l’intellettuale scrive, dipinge o compone solo per un pubblico di intellettuali.
Il Novecento, questo secolo tragico per la storia dell’uomo, ha visto la progressiva trasformazione della società occidentale in società di massa, la cui opinione generalmente è manipolata dai mezzi di informazione; questi ultimi, quindi, agiscono come mezzi di creazione del consenso, e giocano un ruolo politico importantissimo. Nella banalizzazione ideologica della realtà che i mass-media ci offrono, rendendocela così appetibile e accattivante, la cultura non sembra avere scampo: la critica alla realtà, dura, disincantata, senza compromessi, quello che dovrebbe essere l’intenzione di ogni opera d’ingegno che aspiri a ritenersi “cultura”, non sembrano reggere il confronto con lo strapotere dei mass-media. I tempi potenzialmente destinati all’esercizio di qualsivoglia operazione intellettuale degna di questo nome ci sono sottratti dall’industria dei media senza che nemmeno ce ne accorgiamo. La loro invadenza nella nostra vita è contraddittoria, come ogni cosa: mentre ci illudono della nostra stessa libertà di sceglierli, i mass-media ci rendono meno liberi di interpretare la realtà. In questo stato di cose, la cultura ha accusato pesantemente il colpo, e gli intellettuali si sono chiusi sempre di più in spazi socialmente autosufficienti, rifiutando a priori ogni contatto con il pubblico. La fase più acuta di certi movimenti d’avanguardia letteraria ed artistica, tra gli anni sessanta e settanta, ne sono testimonianza. Tuttavia, non si possono colpevolizzare gli intellettuali perché hanno operato il “gran rifiuto” di comunicare con il pubblico, rendendosi immuni dal giudizio, socialmente determinato, dei destinatari potenziali della loro opera. Se gli intellettuali sono diventati una casta, è perché anche loro, come ogni settore delle attività economiche e produttive del tardo capitalismo e della società dell’informazione, hanno subito un processo di continua specializzazione delle competenze tale da rendere non praticabile un compromesso tra le loro ragioni e quelle della società.
Oggi, finita la grande stagione delle avanguardie, il rapporto tra cultura e società andrebbe reimpostato. L’isolamento sociale dell’artista, che nei decenni passati garantiva la bontà della sua stessa opera, non sembra essere più l’unica (benché dolorosa) via percorribile. La disgregazione del tessuto sociale, così tipica di questi anni, ha diversificato ancora di più la gamma delle modalità di fruizione delle attività culturali, tutte, in fondo, legittime. Di fronte allo strapotere politico dei programmi del più ottuso intrattenimento televisivo, il mondo intellettuale sembra aver saputo reagire con una certa vivacità, recuperando quel rapporto col pubblico che si era perso durante le stagioni delle avanguardie.
Ma un rischio pericoloso si annida in questo recupero: la facilità comunicativa di tanti linguaggi artistici e letterari contemporanei. Essa, che pure ha permesso il tanto sospirato riavvicinamento tra cultura e società, non è in grado di svelare la complessità del mondo sociale nella misura in cui non è in grado di interpretarne la complessità: viene meno, in altre parole, la funzione antagonista della cultura rispetto alla realtà.
Questa, mi pare la situazione attuale: una salutare differenziazione dei linguaggi, delle tecniche, dei codici della comunicazione artistica, che nel loro complesso ci danno la misura di quanto sia variegato il panorama culturale, ma nessuno veramente in grado di rendere conto del grado di complessità raggiunto dalla nostra realtà sociale. In questo senso, la cultura potrebbe anche rivelarsi un’arma a doppio taglio, rendendosi, con questa disponibilità alla facilità comunicativa, perfettamente integrabile nel circuito dell’industria dell’intrattenimento e dei mass-media. Allora delle due l’una: o la cultura segue le proprie autonome direttrici di sviluppo, ma allontanandosi per forza dal contatto col pubblico, o essa cerca di andare incontro al pubblico, ma allontanandosi dalla realtà e divenendo facile preda dell’establishment. Un circolo vizioso che, almeno per il momento, non contempla vie d’uscita, perché si genera a partire dagli stessi rapporti che tengono insieme la nostra società. Ecco perché una nuova cultura, che sappia conciliare le ragioni degli intellettuali e quelle del pubblico, non può nascere senza una nuova società.
tratto da
di Andrea Sansone
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